PONTE MORANDI
Le ferite di Genova (di Marco Imarisio)
servizio per Corriere della Sera
La signora Anna ricorda che stava tagliando le cipolle per il soffritto.
«E ogni volta che ci penso, quindi sempre, comincio da lì, mi rivedo con il coltello grosso in mano, che affetto sul tagliere. Per me comincia tutto così. Forse perché era l’ultimo gesto normale prima che cambiasse tutto. Per me, per noi, per la nostra città».
Pioveva forte, quella mattina. Il cambio di stagione era il pretesto per tornare a un ragù come si deve, così le aveva detto suo marito al telefono. Scarica mattoni e piastrelle a due passi da casa, azienda Vergano, materiali edili dal 1960, arrivano i camion all’alba per caricare e poi via verso i cantieri della città.
All’improvviso Anna sentì un tuono, «ma arrabbiato». Dal lavello della cucina le venne spontaneo girare lo sguardo verso la finestra. «C’era del fumo che stava scendendo, come una nuvola che cade».
E poi il ponte, quel ponte che è stato una costante della sua vita, quando da bambina giocava a rimpiattino con le amiche in cortile, quando ha fatto la festa di matrimonio sul tetto del condominio, non c’era più.
«Ho cominciato a piangere, ma non era per le cipolle. “Dio mio è successo davvero”, ho pensato, perché abbiamo sempre avuto questa paura, quasi settant’anni a vivere qui, ad averlo sempre negli occhi, e insomma, era un come un parente malato, uno zio matto. Quel giorno mi si è spezzato il cuore».